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Viaggiavamo tranquilli, sul ritmo della radio. Un rap brasiliano. Sembravano
gli stessi di Garota nacional. Non so come si chiamino — non
me ne intendo di queste robe. Schiocchi di dita. Visioni di mulatte ancheggianti
— ombre sul parabrezza. Appagamento totale.
« Io a Cuba ci verrei pure », fece Antonio spezzando l’incantesimo.
« Ma mi fanno pena, adesso. »
« Aspetta un momento », eruppe il Bavoso, al solito inferocito.
Era un tipo che non riusciva ad aprire bocca senza schiumare. Lo conoscevamo
da sei mesi almeno, però non ci avevano ancora fatto il callo.
« Ti metti a fare il conte? », si ostinò, a brutto
muso contro Antonio. « Ché non mi risulta che tu navighi nell’abbondanza
in quanto a fica… »
« Be’, comunque non ci contate… Su di me, voglio dire. »
Antonio arrossiva, era un timido. Il tono aspro del Bavoso lo indisponeva,
come pure qualsiasi parola volgare. « Odio il turpiloquio », diceva
spesso. Noi ridevamo, ma in fondo lo si rispettava, quel tot, né di
più né di meno, perché era uno genuino. E poi ci si riapprofittava
di lui.
Antonio.
Uno dei tanti che non sanno dire di no.
« Non mettere in mezzo roba politica », allora dissi io, seccamente
(va’ a capire che mi frullava in testa). « A Cuba ci va mezzo
mondo — e mica per vedere Fidel o fumarsi un sigaro gagliardo! »
« Ma pensa a guidare, coglione! », rise il Bavoso. « Dàgli
pure la scusa dei poveri comunisti… Questo è che non c’ha
le palle », sentenziò rivolto ad Antonio. « O se ce l’ha
non le vuole usare… »
« E lasciàtelo perdere. E tu non te la prendere, Antonio. »
Quella voce monotona, senza variazioni. Pietro P. era sempre stato il più
conciliante del gruppo. Per questo lo chiamavano « Pietro P.
». La P puntata stava per « Pace ».
« C’è poco da fare stavolta. Non mi convincete. E non vengo.
E basta. »
« Okay, c’hai le palle. E allora? Sulle quindici-venti scopate
che ti toccano, al massimo, nella tua vita, vuoi rinunciare a un sicuro trenta
percento del totale?… Quanto sei scemo, Antonio? Quanto, da uno a cento?
Novantanove?… »
« Accosta, Nero », s’intromise Pietro P., toccandomi la
spalla. « A questo punto ci vuole proprio una pisciatina di riflessione.
»
« Mi associo », disse il Bavoso schizzando particelle di saliva
sul cruscotto, mentre s’accomodava la patta.
«
Vedi Nero, i tempi sono cambiati. »
Gli sgabelli dell’autogrill — scomodi e altissimi. Ci stiamo arrampicati,
non seduti. Il mio caffè e la sua aranciata sono un paravento per nascondere
Antonio, per far sì che si apra, al riparo dall’aggressività
del Bavoso.
« Vi divertite lo stesso, anche in tre. E poi è meglio così,
ché sto davvero in bolletta. »
« Dài, Antonio: non è questione di soldi. È il
nostro viaggio. Te lo ricordi o no?… La faccia del Che, Antonio
— ancora ti guarda dalla parete… »
Sorseggia lentamente, fa sdrucciolare i polpastrelli sul vetro appannato del
bicchiere. Forse pensa proprio al Che, al manifesto nella sua camera.
Forse no.
È triste Antonio. Non l’ho mai visto così, o non me ne
sono mai accorto. Mi rendo conto, ora, di non aver mai dato davvero peso ai
suoi sentimenti. In fondo anch’io, come tutti gli altri, Antonio l’ho
sempre sottovalutato, schivato.
« Non è questione di donne, né di timidezza, Nero…»
Un’altra pausa — l’ennesima.
« Ma poi che ti devo spiegare io — che non hai già capito?
»
Sì, ha ragione. Ho capito. Ho capito da un pezzo.
« È come desiderare una ragazza, Nero. Che è come avere
un ideale, o un sogno, in definitiva. Te lo tieni dentro lo stomaco, quel
languore — per mesi, per anni. Pure tutta la vita, può darsi…
Un bel giorno però succede che la conosci quella donna: da vicino,
per bene. Ci esci e scopri che non è poi quel granché —
e che magari le puzza anche l’alito. Era meglio che non ci fossi mai
uscito. Era meglio tenersi il languore, accontentarsi di quello. »
Guardo dietro di me — insofferente, a disagio. Quei due al cesso ci
mettono un’eternità. Chissà perché: adesso Pietro
P. e il Bavoso pare mi manchino.
« Proprio perché era il nostro viaggio, Nero. Cuba la
lascio agli altri. Anche a voi — senza offesa. E ai turisti del dopolavoro.
E ai viaggi di nozze. E al papa… »
Ora Antonio sta zitto — un attimo interminabile. Quasi non sapesse più
cosa dire. O come se cercasse le parole adatte. Adatte per chissà cosa.
Dopo, con una scrollata di spalle, accenna un sorriso un po’ vuoto,
banale — perché la vita è banale quando le strappi via
i sogni.
E la sua conclusione è questa:
« Fammi il piacere: Fidel salutamelo tu, Nero. »
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