____________________________________________________________________________________________________________

 

Brani dal romanzo

 

 



Unica fine, in più parti, di un presunto untore

(Capitolo 10)


Wilhelm il frisone, l’uomo che vendeva i pianeti con i suoi pappagallini, lasciava a ogni passo una scia di sangue sopra la neve. Il naso e la bocca, nonché una spaccatura piuttosto profonda del sopracciglio, gli arrossavano il busto, e la chiazza vermiglia gli aveva intriso persino i pantaloni — tutta la coscia destra fin quasi al ginocchio. Le gocce scure, nerastre, affondavano in silenzio dentro il terreno imbiancato, e poi il girovago, il dispensatore di profezie, trascinava la gamba spezzata e, zoppicando, impastava il sangue col fango e il nevischio.
Era l’alba, oppure il tramonto — il frisone non lo ricordava. La luce cadeva trasversalmente sul mondo. Ed era così debole, fioca, che i suoni sembravano prendere forma e colore, invadere le prospettive ed i corpi — fino a sostituirli, semplicemente. L’affanno raschiato del grosso uomo ferito, fuggiasco; lo scalpiccio strascicato — un passo a fondo, pesante, e l’altro piede tirato via, con fatica —; il brusio veemente, molteplice, degli inseguitori, sempre più nitido, sempre più vicino.
Stringendo i denti, senza quasi provare più quella fitta assurda al centro esatto della testa, Wilhelm superò un dosso trovando appiglio nei tronchi di alberi esigui. Si girò, fumante nel freddo del paesaggio piatto ed opaco, verso gli echi delle voci alle sue spalle. Dopo guardò avanti a sé, e indovinò, alla fine d’una sorta di avvallamento, la striscia cupa della strada che da Lille Havn portava verso l’interno. Oltre la strada tremavano come fiammelle, nel grigio, le poche luci d’un altro villaggio.
Respirò a fondo. Sorrise. Si passò la manica impiastricciata sopra la fronte, a detergersi sangue e sudore. A quel punto la gamba spezzata gli venne meno: perse l’equilibrio e rotolò giù nell’avvallamento, per una trentina di metri, disarticolato come un burattino rotto.
Perse i sensi, ma solo per pochi istanti. Poi il dolore lancinante gli diede una scossa e lo risuscitò, disteso supino a guardare un cielo sbiadito in cui le stelle apparivano, o stavano lì lì per disciogliersi, per lasciare il posto a una coltre azzurrognola. Dio, pensò allora. Dio mio… E appellandosi a ogni risorsa per quell’ultimo, colossale sforzo — scivolare al di là della strada, fino alla prossima casa —, tentò di ricordare quali preghiere avesse mai appreso. Se c’era stato un momento, in quella sua vita di sfaccendato e ambulante, nel quale aveva avuto una religione — un Padre Onnipotente da venerare e temere, o magari anche amare, intanto che portava in giro e vendeva il Destino.
I figli amano i padri, si disse per farsi coraggio. E così i padri li amano a loro volta, non li abbandonano…
Un fruscio. Improvvisamente gli sembrò d’aver udito un fruscio che proveniva da un qualche punto imprecisato appena al di là della strada. Ma forse era stato lo stesso suo strascicare in mezzo alla neve, la gamba morta che seguiva il tronco, appesa e scomposta come un grosso pesce inanimato sul ponte d’una paranza, fatto strusciare dai marinai tra il fradiciume sanguinolento degli altri pesci che ancora annaspano e schiaffeggiano l’aria.
No. Quella metafora, quella visione da pescatori (del tutto nuova per lui, per uno abituato alla terra sotto i propri piedi, anche se solito vendere sogni) era l’ennesimo inganno, un altro miraggio. Il fruscio si ripeté di nuovo, oltre la trama ruvida della strada, nitidissimo e estraneo dentro il chiarore dell’alba — era l’alba, sì, e le stelle non comparivano, si dissolvevano invece, sopra di lui.
Wilhelm si irrigidì. Si paralizzò in quell’universo di acqua gelida, addensata e liquida insieme, e scrutò avanti a sé, nella foschia del mattino ancora a venire. C’era una sagoma adesso, un profilo nerastro, beccuto — come un corvo che fosse spuntato dietro il ciglione che delimitava la strada. Ma non muoveva il capo a scatti rapidi, come usano fare gli uccelli. Ora, senza fretta, mostrava il profilo aguzzo — sembrava intento ad un ramo, a sbeccuzzare una linea diritta e altrettanto scura —; ora si rigirava di fronte e, forse, fissava il frisone. In quei momenti mostrava una testa squadrata, che si allargava sui lati, alle tempie. Ricordava quasi un barbagianni, od un gufo.
Il cuore aveva per un attimo rallentato. Poi, però, una nuova incertezza s’era mescolata nel battito dentro al petto di Wilhelm. L’eventualità che si sbagliasse, che in quel gioco di ombre e di luci morenti e nascenti non fossero uccelli a posarsi lungo le strade, ma maligne fantasime, incubi cattivi e violenti. E che il delirio e il dolore alterassero distanze e figure, occultando le insidie, gli agguati.
Allargò le dita che, inconsapevole, serrava a pugno. Le affondò in quella farina di ghiaccio e di terra finché non strinse una manciata di freddo pastoso, compatto. Si inclinò leggermente su un unico fianco e, facendo forza solo con la spalla, scagliò il proiettile addosso all’ombra del corvo.
Un tonfo sordo, la minuscola esplosione della neve sulla strana testa di gufo. Nessuno stridio. Neanche un battito d’ali, un accenno di volo.

Il Caporale imprecò contro quell’alba torbida. Il suo turno era quasi alla fine, tutto era andato liscio, tranquillo, davanti alla sua porzione di ghiaccio e di strada. Tutto fino a pochi secondi prima — ma erano secondi o minuti? Oppure ore, addirittura, ché quando si monta la guardia, col moschetto a tracolla, la fissità ti annichilisce e ti ottunde, e ogni cosa diventa astratta e incorporea come l’idea del Tempo?
Tempo. Quanto tempo aveva impiegato quell’uomo, ruzzolando e strisciando, ad arrancare fin quasi alla sua postazione? Era un po’ che il militare l’osservava, da quando quell’ombra scombinata e zoppa era comparsa sul filo di neve della salita, fra gli alberi radi. Il passo del fuggitivo era sciancato e debole, e il vapore emesso in rapidi sbuffi dalla sua bocca indicava lo sfinimento. Il Caporale, allora, aveva stappato con lentezza il cappuccio della fiaschetta di polvere e, con gesti altrettanto flemmatici e misurati, mentre vegliava sulla figura lontana, aveva iniziato a caricare il moschetto. Poi l’altro era rovinato giù nell’avvallamento, e alla fine della caduta era rimasto immobile, come fosse morto.
Ma non era morto. Anzi: va’ a capire cosa gli doveva esser passato per la mente ché, da disteso, aveva immerso un braccio nel suolo e dopo gli aveva tirato contro una palla di neve!
Il Caporale finì di scuotere il ghiaccio dal tricorno, battendo un’ultima volta il cappello sul fianco del suo cappotto. E qui converrebbe parlare di immaginazione, visto che il soldato ed il suo fucile avrebbero continuato ad essere un uccello bislacco e il suo ramo. E che, in aggiunta, l’infezione e l’acuta dolenza della frattura si sarebbero sbizzarrite a mettere in scena per il frisone ombre cinesi di gufocorvi, o di corvogufi, e cioè dell’unico volatile il quale — pare — sia in grado di svitarsi il becco e la sua impalcatura, scrollarne via la neve, e riavvitarselo di nuovo in capo. Tutto questo, almeno finché il corvogufo non avesse intimato l’alt — quando la luce rivelava già molti dettagli e, da dietro il ciglione, i grossi bottoni ottonati della divisa riflettevano sfocatamente i primi raggi dell’alba.

E dunque: « Alt! », gridò l’uccellaccio arruolatosi quel mattino stesso. « Altolà! Non un movimento di più! », gracchiò insistente, forse con frasi che aveva appena imparato.
Wilhelm strisciò ancora in avanti, per circa un paio di metri, dolendosi per il fatto che i pappagallini delle Indie Occidentali non gli avessero mai ripetuto neanche mezza parola. Dopo si fermò: stavolta per sempre, ché gli mancava la forza per andare oltre. E tuttavia era arrivato fin dove voleva, fino al punto dal quale riusciva perfettamente a vedere gli occhi dell’altro sotto quel becco-cappello.
Morire così va bene, pensò quindi il frisone con un distacco febbricitante, quasi che la sua mente osservasse quegli attimi fuori dal corpo. È più giusto, quando si muore, incontrare l’ultimo sguardo che ti è toccato in sorte.
E poi formulò nuovi accenni di frasi, più che altro allusioni sconnesse e senza struttura, su come sapesse che la Morte è cieca: una cecità vischiosa e infinita. Pensò questo perché ormai il Buio, dentro di lui, aveva scalzato via tutto, disperazione compresa. Anche quel rimasuglio abbozzato, quello scarabocchio del Padre Onnipotente che non era mai stato in grado di scrivere sui bigliettini del Fato.

Così, la dura Ragion di Stato, la stessa che aveva isolato Lille Havn e concepito l’Ordinanza di Sanità, stava per recidere l’ennesima vita. Ma stavolta si trattava d’una morte inutile, giacché chi sarebbe stato eliminato non era un appestatore; e di nessuno dei tipi del contagio: né di quello polmonare, né di quell’altro — forse ben più temuto — le cui vittime faceva straparlare di Dio e di Fede, e di vascelli distanti, all’àncora all’orizzonte, con a bordo Cristo.
E tuttavia, nonostante colui che si faceva avanti, che violava i limiti stabiliti, fosse né più né meno ridotto a un verme strisciante, semisepolto in mezzo alla neve, questa volta il soldato avrebbe sparato.
Potremmo lambiccarci in eterno a trovare un motivo, cristallizzare questi attimi in un Sempre geometrico, e scinderlo e sezionarlo fino a ottenere migliaia, milioni di microscopici Adesso. E poi riconsiderare ogni frammento, ogni tessera, ogni diramazione vetrosa, ogni simmetria di questo mosaico invernale di fiocchi di ghiaccio e di sangue. Inutilmente.
Il Caporale griderà ancora e comunque « Altolà! ». Magari vi aggiungerà un « Fermo o sparo! » stentoreo, ricostruito sopra ricordi altrui. Dopo, senza accorgersi di deglutire a fatica un boccone d’aria, chiuderà l’occhio, incasserà il calcio levigato dello schioppo fra spalla e clavicola e, con le dita quasi paralizzate dal gelo, farà forza con l’indice dolorante, tirando il grilletto. Poi verrà quel rumore assordante all’interno dei timpani. E il fumo, la fiammata che sfiora lo zigomo destro del fuciliere, l’odore aspro, bruciato.

Sia detto: soltanto in un’altra occasione gli sarà data la possibilità di scegliere. Se far fuoco o meno. Accadrà più avanti nel tempo, e a noi potrebbe anche non importare — un’omissione perdonabile, questa — se non fosse che anni prima, allo stesso Caporale — ma allora più giovane, un « Verginello » — una puttana per soldataglie, presso un confine incerto del mondo, non avesse voluto leggere la linea del cuore, prima di passargli il piacere e la febbre infettiva del tifo. E se non fosse che la prostituta-sibilla avesse strani responsi da vaticinare: di generosità, di amore che costa un occhio della testa. E di due donne, due donne insieme…
Così, in quest’altra occasione a venire, l’uomo d’armi non sparerà — e magari sarà stato anche merito di Wilhelm, il frisone. Il Caporale attenderà fino a che le due donne da Lille Havn — la giovane vedova e la piccola Anja, attaccata alle vesti materne — non oltrepasseranno il solco scuro della strada; attenderà fino a che il colpo di nerbo del Sergente — « Fuoco, perdio! Fuoco, Caporale! » — non gli brucerà l’occhio e la guancia, svirgolando dal bavero al sopracciglio.
Allora, senza un lamento, con la grazia d’un angelo accecato, farà cenno al suo aguzzino d’allontanarsi, roteando il moschetto nell’aria come uno scettro celeste. E poi avvolgerà le due figurine smagrite — quella piccola e quella più alta — sotto il mantello della sua divisa, e tutti e tre svaniranno insieme, per sempre, verso la baia del morbo.
Ma questo è un altro racconto, fatti che non ci riguardano…

Torniamo al frisone. Al suo ultimo tonfo a faccia in giù nella neve.
Ora, mentre immagina che quel sudore freddo sia il primo sentire la Fine, mentre ha la certezza che i plotoni d’esecuzione di tutta la Terra siano composti da fucilieri con occhi spauriti, larghissimi — occhi che nemmeno i condannati a morte… —, ora si accorge che in un mondo dove ci si ricorda solo dei furbi, o dei pazzi, lui ha sempre creduto di appartenere ai primi. E invece è stato soltanto un pazzo. Soltanto un povero pazzo impostore, con un paio di pappagallini, che si figurava davvero di sostituirsi alla Sorte scrivendo futuri buoni, buoni per tutti, sopra striscioline di carta. Buoni per tutti, ma non per se stesso.
In questo modo, con questi pensieri, ha termine il viaggio d’un giramondo senz’altre colpe che quella d’aver donato illusioni e speranze in cambio di pochi spiccioli. È una maniera bizzarra di andarsene — come è bizzarro scrivere « andarsene » quando, al contrario, chi muore resta, si sedimenta e indurisce nel ghiaccio.


Le forme grigiastre degli inseguitori appaiono un attimo sull’orlo distante della salita. Controllano gli ultimi rantoli del presunto untore. Dopo, in silenzio, si voltano e fanno ritorno, nell’alba sporca ed opaca, alla baia della quarantena.

 

 

Joseph William Mallord Turner: Snowstorm — Steamboat off a Harbour's Mouth (1842)


L’attesa. L’assenza

(Capitolo 16)


Lettera di Dona Beatriz de Bragança a Harald III


Lille Havn, 17 di marzo 1770

Mio Amato Signore,
è dopo lungo tentennamento che mi risolvo a scriverVi di questo viaggio, possibile solo grazie alla Vostra generosità e grandezza d’animo. Più volte mi è accaduto di soffermarmi a riflettere sulla Vostra scelta: se è vero, infatti — come dite (e come potrei dubitarne?) —, che avete per me gli stessi sentimenti che io ho per Voi, allora ben immagino quanto sia stato arduo esaudire le bizzarre volontà di questa testa matta, concederle — concedere a colei che onorate del Vostro interesse — di esporsi a chissà quali pericoli soltanto per appagare la sua brama di conoscenza. Benché infatti, come asserisce lo stesso Dottor Pedersen, le notizie acquisite e verificate dal Collegio Sanitario Reale assicurino che il rischio di contagio sia ormai debellato, mi sembra quasi di avvertire l’inquietudine e l’ansia che la Vostra Persona Serenissima deve aver provato per i possibili pericoli ai quali la sottoscritta ha voluto esporsi; e d’averVi procurato questi turbamenti mi dolgo nel più profondo della mia anima.
Di questo viaggio Vi scrivo, dunque. Un viaggio che ha dell’incredibile, Mio Caro, non foss’altro che — ne ho la certezza — tutti noi che l’abbiamo affrontato ne torneremo in qualche modo diversi, cambiati.
Ma è necessario che mi spieghi meglio.

Tralascerò — ché non voglio annoiarVi — del nostro arrivo a Lille Havn, di come i moschettieri della Compagnia « Skanderborg » ci abbiano scortato, senza batter ciglio, al di là della cintura di sicurezza stabilita dall’Ordinanza di Quarantena. Ho saputo, peraltro, che questi soldati vengono chiamati « gli Immortali », o qualcosa di simile. Non ho avuto modo di approfondire la cosa (le maniere del loro ufficiale, seppur gentili e impeccabili, erano rapide e secche), ma non ho mancato di notare il contrasto bizzarro fra quel soprannome e le figure dei militari. Sbilenche, smagrite, esaurite — niente di meno immortale o di più vicino alla Morte. Per un istante mi sono scoperta a pensare a quegli uomini come a dei cerberi ossuti ed involontari, comandati, loro malgrado, ad interminabili veglie ai confini di chissà quale inferno.
Lille Havn — mi sono detta allora — è stato inferno due volte. La prima volta per l’epidemia che l’ha infestato, per i suoi ammalati ed i suoi defunti. La seconda per il terrore — invisibile, occulto — che ha proiettato all’esterno. Un terrore sempre sul punto di traboccare fin oltre l’oscura, approssimativa cornice della bolgia bianca di neve da guardare a vista. Un terrore che, forse, i cuori palpitanti sotto le divise immaginavano simile a un vento improvviso, ad un soffio divino o diabolico pronto ad alzarsi da un momento all’altro, e a spazzarli via tutti in un colpo solo, « Immortali » veri o impostori.

Ho parlato di vento, Signor Mio. È stato il vento — uno spirare gelido, salmastro, che impastava il mare addosso alla terra — il primo ad accoglierci. Già scorgevamo i profili bruniti, un po’ obliqui, delle basse case di Lille Havn inclinate l’una sull’altra, e il vento picchiettava sui finestrini della carrozza, li incrostava di sale. Aveva il ritmo ipnotico della risacca, dell’andirivieni incessante delle onde. Cavalli e cavalieri piegavano il capo, opponevano criniere e cappelli alle raffiche, ora continue e ostinate come la spinta d’un gigantesco braccio invisibile e umido, ora repentine e taglienti come staffilate inferte a casaccio.
C’era la certezza, in quegli attimi — l’ho letta in me e negli sguardi di chi mi era accanto —, di essere appena entrati in una regione giunta ai suoi ultimi giorni, sul punto di scomparire. Avvertivamo nitidamente, nel vento, l’ansia del mare, la sua volontà di straripare e corrodere. Di irrompere sopra il villaggio ed annetterselo, trascinarlo via. Una sorta di fame atavica — ho immaginato — questa marina, che repliche e repliche di quel teatro di morte dovevano aver risvegliato.
Francisco Maria ha mormorato qualcosa in lingua urone a João Francisco, che teneva gli occhi chiusi ed il bavero sollevato (ma non stava dormendo: fingeva, immobile e vigile nella postura tipica del cacciatore indiano, pronto a scattare). Mi è parso di capire questo:
« L’aria che soffia è acqua di mare. L’acqua di mare adesso mangia i ripari e la terra degli uomini. »
Naturalmente traduco male: semplifico, alla maniera europea. L’idioma degli Uroni, per quel che lo conosco, non fa mai uso di termini astratti; è sempre complesso, ha l’esigenza di descrivere e precisare fin nei minimi particolari. Ho dovuto scrivere « L’aria che soffia è acqua di mare », ma forse Francisco Maria aveva detto qualcosa come « L’aria salmastra e satura di umidità che spira su di noi è acqua di mare della baia ».
Una volta il Visconte, a proposito della lingua di questo popolo della Nouvelle-France, fece un’osservazione — la ricordo perfettamente —; disse: « Nella sostanza, si può affermare che quella sia gente davvero puntigliosa »; ma, nel caso particolare, mio marito si riferiva all’abilità perfino raffinata che gli indiani mostravano nel mercanteggiare, alla loro dialettica nelle trattative in cui tenevano bellamente testa a qualsivoglia commerciante europeo, francese o meno che fosse.
So di certo, ad esempio, che un concetto come « tempesta » abbisognerebbe di un lungo paragrafo a tradurlo in urone. E questo perché gli alleati indiani dei Francesi non concepiscono la « tempesta » senza accompagnarla al « fulmine », al « lampo » ed al « tuono », come pure alla sua manifestazione di potenza, al suo fragore assordante. E quindi non sarebbero mai in grado di limitarsi ad un unico vocabolo, ad un’espressione di pura idealità, aliena da ogni altro contesto.
La cosa curiosa, tuttavia, è che i miei due valletti — João Francisco e Francisco Maria, cioè un vero urone ed un mezzosangue — siano capaci di usare semplicemente « tempesta », senza altro aggiungervi, quando mi si rivolgono in francese o in portoghese, lingue che ora dominano con discreta padronanza. E che invece ciò non accada quando ritornano al loro idioma natale. È come se, a seconda del linguaggio usato di volta in volta, essi si trovino a dover pensare in forme e maniere diverse. Quasi che ogni lingua imponga, a chi parla, dei differenti e suoi propri schemi mentali; che filtri la realtà e, in qualche modo, la ricostruisca e rimodelli a immagine delle regole con cui ogni sua frase viene pronunciata.
Probabilmente, Mio Signore, adesso Vi parrà che io divaghi. Eppure Vi sarà presto chiara l’utilità di questa mia digressione, ché se è vero che gli idiomi del mondo intervengono attivamente nella percezione del circostante — quando non giungano addirittura a mutarla (e non rammento più se una siffatta teoria mi sia occorso di leggerla in un qualche trattato, o se l’abbia udita dai colti illuminati dei saloni parigini) —, allora codesto discorso sulla lingua urone non sarà stato affatto peregrino. Immaginate infatti sin d’ora i miei due Franciscos dinnanzi alla manifestazione d’un portento. RaffigurateVeli mentre osservano, coi loro occhi sgranati, la visione del Leviatano che s’imprimerà per sempre nelle loro menti e nelle loro anime. E poi provate, Mio Amato, a indovinare le loro parole, le loro descrizioni dell’Indescrivibile, il loro ricorrere, affannosamente, a questo e a quell’altro idioma, quasi ad illudersi di poter afferrare, traducendolo in misere frasi, ciò che sfugge all’umana comprensione.

Ma torno al nostro arrivo, allo scenario del villaggio che l’artiglio della peste misteriosa ha tramortito e scarnificato.
A questo punto dovrei raccontarVi delle mie aspettative — e di quelle di noi tutti. Ci attendevamo gli echi dei lamenti, un brancolare di ombre — le ombre di una gente ferita, prostrata. E invece c’erano soltanto i vortici di polvere fredda che turbinavano dentro i vicoli deserti e bui; solo i profili rettangolari e oscuri di porte che si aprivano e si richiudevano, sbattendo una cantilena fastidiosa e stanca che la stessa aria della baia sembrava avere in odio. Di tanto in tanto il grido di un gabbiano che si tuffava fra le onde dietro il guizzo d’un pesce, o magari si gettava su di un cumulo di immondizie affiorato dal ghiaccio disciolto, dietro le costole macilente d’un ratto. Non c’erano che suoni, e rumori. E nemmeno uno di questi che fosse umano.
« Lo spirito della Morte è potente qui », ha detto lapidario, in francese, João Francisco.
Subito il Dottor Pedersen, rosso in viso, ha voluto precisare (o meglio, correggere):
« Dev’essere l’ora mattutina. È presto… e non c’è nessuno in giro. »
Quasi balbettava, agitando il capo a destra e sinistra, nel suo solito fare tentennante e insicuro. Era facile capire che stava parlando a se stesso, per darsi animo. E ha aggiunto uno sbadiglio, a sottolineare l’incipiente stanchezza per la nostra levataccia.
« Già », ho fatto io. « Dev’essere l’ora », ho tagliato corto. Avevo letto negli occhi dell’urone quella luce di crudele ironia che conosco assai bene. Non intendevo permettere che João Francisco si accanisse sul giovane inviato del Collegio Sanitario, che lo torturasse approfittandosi dei suoi timori.
A volte, a questi indiani, è sufficiente anche un semplice sguardo, o un sorriso accennato, fatto scoprendo la chiostra dei denti. In quegli attimi si ha come l’impressione di non fronteggiare un nostro simile, un essere umano; piuttosto, inaspettatamente, ci si materializza davanti una belva feroce. Sono sicura, Mio Caro, che intendete bene ciò che voglio dire, poiché siete stato spesso a contatto coi miei due attendenti, soprattutto nel corso delle battute di caccia. La loro ferinità — che affiora all’improvviso, sovente quando siamo intenti ad altre cure, e quindi più vulnerabili — finisce per atterrirci: allora non abbiamo difese da opporle e ci rammentiamo delle voci, nebulose e imprecise, che riportano dei loro riti sanguinari ed atroci, del cannibalismo che praticano sui corpi dei nemici caduti nelle loro mani.
Ma — ne sono convinta — le cose stanno diversamente: il fatto è che questi uomini sono così tanto vicini alla Natura, appartengono così tanto ad essa, quanto noi Europei ne siamo irrecuperabilmente, definitivamente distanti. Dinnanzi a questa distanza remota — che forse, senza confessarcelo, viviamo come un distacco e una separazione — non sappiamo far molto di più che nasconderci dietro lo schermo delle nostre paure.

Ora troverete che, come di frequente, io mi abbandoni a gratuite filosofie. È forse colpa, Mio Amato Sovrano, dell’indole del mio pensiero medesimo: tortuoso (come si dice sia quello delle donne), che gira e rigira più volte su sé, e in ogni suo andare e tornare ama soffermarsi su aspetti e visioni che in precedenza gli sono sfuggiti.
Oppure il motivo è proprio questo viaggio, proprio Lille Havn. Ho sempre creduto che vi siano luoghi, e atmosfere, che aiutano i nostri pensieri a proliferare. Questi luoghi, queste situazioni, devono agire alla stessa maniera di certune scenografie, di determinati palcoscenici, i quali — per il semplice fatto d’esser dipinti così, e non altrimenti — incalzano e stimolano la fantasia e la vena dei commediografi e dei tragediografi.
E così, entrando a Lille Havn, è stato come se i miei — i nostri — pensieri abbiano preso a correre. Prima sulle ali del vento; poi, subito dopo, non appena il fischiare freddo e salmastro è svanito di colpo nel silenzio di quel paese assente, sotto la pioggia scrosciante. Correvano, i nostri pensieri, sotto il temporale improvviso, allo stesso modo in cui servi e domestici si precipitavano con ceste e bauli in direzione della locanda nei pressi del porto. C’era da passare per viuzze anguste, troppo strette per qualsiasi carrozza, e dunque non siamo scesi, siamo rimasti nello slargo della piazza, in attesa che il cielo si calmasse.
Pedersen si torturava l’acne sulle guance rosse, visibilmente infastidito dal parlottio, per lui incomprensibile, dei miei Franciscos. Stava piovendo a dirotto, perfino con violenza, tanto che la nostra vettura pareva investita da una gragnuola di colpi, da serie e serie di martellate che s’abbattevano sulla tettoia. Dalla piccola feritoia che dava sulla cassetta si vedevano le larghe sagome nere dei due cocchieri, stretti spalla contro spalla ad offrire meno corpo possibile alla pioggia incessante. Da ogni parte veniva l’odore del manto bagnato dei cavalli e, di quando in quando, gli animali trasalivano al baluginare lontano dei lampi.
Eravamo là dentro, immobilizzati nostro malgrado, e allora mi è venuta alla mente un’altra fissità immobile: il Vascello. Pensavo a quando l’avrei finalmente potuto vedere — sempre che vi riuscissi, che fossi ancora in tempo, giacché i ghiacci avevano ormai liberato le onde, e il tratto di mare avanti alla baia molto presto sarebbe tornato navigabile.
Pensavo a questo, dunque, e notavo come il nostro ingresso a Lille Havn fosse stato contraddistinto dalla mancanza, dall’indefinitezza. Avevamo varcato la soglia d’un mondo vuoto, cieco e sordo, avaro di colori e di immagini, e addirittura di suoni e rumori. Erano questi gli strascichi, gli ultimi maligni effetti del morbo? La sua cicatrice indelebile? Poiché eravamo ad un passo dalle banchine e dai moli, ma potevamo solo immaginare lo sciabordio dell’acqua in mezzo agli scafi ancorati, o l’orizzonte interrotto dalle linee inclinate d’un bastimento-fantasma.
Fantasmi, sì, apparenze: indizi di forme che si tracciavano da sé sole, dentro le nostre menti. Non c’era altro a Lille Havn. Nulla oltre a sagome di cocchieri sotto la pioggia, a tetri contorni di porte cigolanti e di case mute. Nulla oltre l’idea dello sghembo profilo d’una nave alla fonda in alto mare che forse, di lì a poco, sarebbe scomparsa per sempre.
Senza una parola, senza annunciare le loro intenzioni, João Francisco e Francisco Maria sono improvvisamente saltati fuori dalla vettura, svanendo dentro la pioggia. Ennesime forme imprecise anche loro, repentine, nient’affatto impacciate dalle pellicce dei grossi pastrani. Li ho osservati finché ho potuto dal finestrino, mentre sparivano in direzione del mare. Hanno imboccato un budello che s’incuneava fra due file di catapecchie senza colore i cui tetti, su in alto, agli ultimi piani, parevano quasi incurvarsi e congiungersi fino a nascondere il cielo di piombo.
Sono scivolati via in mezzo al brusco grigiore di quel mattino. Predatori rapidissimi, spalle arcuate e ginocchia flesse, pronti a balzare, a scagliarsi. Erano gemelli identici, ciascuno l’ombra dell’altro. Creature affiorate da un sogno — un sogno che metteva in scena chissà quali cacce ed inseguimenti in una terra sconosciuta, scarna. Ché non esistono belve in agguato, con pelliccia e tricorno, se non nei sogni. E solamente nei sogni belve del genere si aggirano in vicoli oscuri, minimi ed essenziali, di pareti nere e acqua sporca.
Rammento l’attimo in cui ho incrociato lo sguardo spaurito di Pedersen. Ed il mio strano sollievo che si rispecchiava negli occhi del medico. Io, in quell’istante così intimidita e lontana da quei due esseri che erano quasi cresciuti con me, che giorno per giorno vivevano accanto a me. E il conforto che ora provavo — il sollievo che confermava la mia debolezza senza speranza — grazie a quel muro di pioggia che li separava da me, che li faceva invisibili. I miei Franciscos, che non erano affatto miei, i quali — solo allora me ne avvedevo — neanche mi avevano mai rivelato i loro nomi tribali (quali erano? « Volpe Silenziosa »?, « Sguardo di Lupo »?, « Freccia Affilata »?).
Uno di quei momenti della vita, credo, in cui ci rendiamo conto che non conosciamo e non conosceremo mai veramente chi ci è vicino, neanche quelli con cui dividiamo il nostro respiro, o il sapore delle nostre labbra. L’amara, invincibile consapevolezza che tutto ci sfugge, e che del Caos astruso da cui siamo avvolti non possiamo afferrare che sprazzi incoerenti di luce e di ombra; o, più spesso, soltanto frammenti — il ricordo d’una carezza, della quiete cristallizzata d’un lago, dell’odore vertiginoso dell’aria che vibra per una spirale di falchi…

Ma perché ora Vi dico questo? Perché indugio in suggestioni e stupori e non, invece, nella narrazione pura e semplice degli accadimenti? Forse perché, Carissimo, proprio adesso che scrivo queste parole in disordine — proprio adesso che tento di raccontarVi ciò che è accaduto e, al contempo, me stessa — è l’angoscia di chi ama che mi prende. È un’insicurezza sottile, cattiva. Ci riporta indietro nel tempo, ci fa minuscoli, piccoli: neonati che vedono a stento, con occhi deboli, inadatti, un mondo che è ancora soltanto Bianco e soltanto Nero; che agitano manine goffe e disperate quando quel tepore consueto sparisce anche solo un attimo, ed è come se la madre — cioè tutto — fosse perduta per sempre.
È che — io lo so bene — in cuor suo ogni amante combatte una battaglia snervante e infinita. Desidera sopra ogni cosa affrancarsi dal bisogno perpetuo dell’altro; l’altro che — si ripete — egli non può e non potrà mai comprendere appieno. E, al tempo stesso, esiste e vive nel Dubbio, s’appaga del bagliore illeggibile dentro il sorriso di colui o colei che regna sui suoi pensieri: non è più in grado di fare a meno di quest’insondabilità.
Quindi ora scrivo dei miei compagni di viaggio, dei miei valletti che sgusciano in mezzo alla pioggia come leopardi affamati; eppure non è loro che non capisco, che sento a un tratto lontani, ma Voi. Voi, Mio Amato, ché come per ogni altra donna che sia innamorata le ore ed i giorni che ci separano si fanno abisso incolmabile, e tutto è via via più malsicuro e crudele, e le idee che si affacciano sono tetre, sconfitte. Se mai, ad esempio, leggerete queste mie parole — se ne avrete davvero voglia o Vi tedieranno. E se, insieme ad esse, anche il mio ricordo Vi verrà a noia.

Qui mi fermo.
Forse è vero quel che si dice: che una Viscontessa — o meglio: una donna — non dovrebbe mai ammettere le proprie debolezze. Ma questo, ovviamente, è un luogo comune.
Allora riprenderò a scrivere quando sarò nuovamente… libera. Libera dai luoghi comuni e — perdonatemi — dall’idea di Voi.

 

[© STEFANO VALENTE — Tutti i diritti riservati. Le pagine di questo sito sono in continua evoluzione. Qualsiasi riproduzione, integrale o parziale, dei contenuti pubblicati su queste pagine senza la citazione della fonte o l’esplicito consenso dell’autore, oltre a essere un atto di inciviltà, rappresenta una violazione alle normative di Legge]

Torna a inizio pagina