Non era più tornato in quei luoghi. Dieci, forse undici anni. Ne era passato di tempo. quello che restava erano le sensazioni — solo quelle —: l’odore di etere nei corridoi; la luce riflessa, opaca, sul linoleum grigiastro, striato di bianco; il tintinnio del metallo e del vetro, delle medicine che si urtano nei carrelli.

 

Il suo letto era accanto alla finestra, e questo gli piaceva — gli era piaciuto fin dal primo momento. Si era risvegliato dall’anestesia e il sole del tramonto — o forse dell’alba (non ne era mai stato sicuro, neanche dopo) — filtrava con raggi sottili dalle tapparelle semiabbassate. Era stato come una carezza per lui, non una lama che feriva gli occhi, non come un fastidio, un insulto alla pace finalmente raggiunta.
In quell’attimo aveva pensato all’uscita dall’utero. Magari era l’unico, da solo su tutta la terra: l’unico per cui la vita era davvero un dono.
« Ti spezzo le ossa, infermiere di merda! », gridava Colón, il vecchio dalle falangi mozzate, dal letto di fronte al suo. Schiumava bile. E soffriva. Colón non aveva avuto una madre, nessuno al quale dire grazie per essere venuto al mondo. Quelli come lui masticano la vita come un boccone amaro, istante dopo istante, senza mai mandar giù.
« A questo spezzi le ossa, nonno tredita », ribatté divertito l’infermiere stringendosi la patta dei pantaloni.
« Bastardo. Bastardo di merda che non sei altro », sussurrava il vecchio. Ora sembrava quasi che piangesse, ma gli occhi dei vecchi sono sempre lacrimosi, penzolanti; la rabbia vi si mescola con la tristezza, con l’impotenza, finché l’una non si distingue più dall’altra. Un mostro a tre teste.
« Piantala Colón », fece secco il vicino di letto, seduto e in canottiera. Último Fuentes, si chiamava. Perché il padre — un anarchico gallego — quando lui era nato aveva detto che sarebbe stato il suo ultimo figlio. Ne aveva avuti già sette, tutti dalla stessa donna, ed erano abbastanza per un muratore che non sapeva fare il suo mestiere.
« Quando uno caccia le balene — anche per una sola volta — », gli diceva Último a proposito del padre, « non è che può fare altro. Nossignore, ragazzo mio. Mio padre aveva iniziato quasi per scherzo; un bel mattino era scappato di casa ed era finito nelle Azzorre. Niente vita facile — è chiaro —, pane secco e febbri, quelle del vento dell’Atlantico... »
« Fuentes ricomincia con la solita tiritera », commentava ridacchiando l’infermiere, ma Último non gli badava — era infervorato, fuori di testa — e continuava:
« ... ché sul ponte del bastimento non si poteva chiudere occhio: tutti attenti, arrapati come per delle femmine in calore, per gli spruzzi lontani delle balene. Anche un solo segno, lontanissimo. »
« Racconta del premio, Fuentes », lo istigava allora Leguizamo, un altro malato, detto « il professore » per gli spessi occhiali da quasi-cieco che gli rimpicciolivano le pupille a due punte di spillo. « Il premio, Fuentes. »
« Sì, il premio, certo. » Último era compiaciuto. « Il premio consisteva nell’avvistamento, cioè nel vedere “il Mostro” per primi. O.K., sembra facile, anzi banale. Ma non lo è, Cristo!, non lo è affatto. » Qui Fuentes, dieci volte su dieci — c’era da scommetterci —, sputava per terra con violenza. « Scaracchi di figlio di baleniere », sarcasticava Colón ammiccando al giovane degente di fronte a lui.
« Ore e ore sul ponte, in attesa. Freddo, raffiche, sale; ma raffiche ghiacciate soprattutto, che ti congelavano l’uccello e non riuscivi neanche a pisciare; il che, poi, a pensarci bene era una stronzata bella e buona, con tutto quel vento. »
« Insomma », faceva Colón con cattiveria, « se non vincevi ti potevi sempre lavare la faccia col piscio, eh? »
« Ma quanti anni hai, vecchiaccio? », interveniva Leguizamo, schifato.
« E che cazzo c’entra? Abbiamo tutti un pappagallo tra le gambe qua dentro, giovani e vecchi. »
« Certe volte ragioni come un deficiente, Colón. Mio nipote ha un anno e mezzo di meno del ragazzo e potrebbe farti da padre... »
In quei momenti Fuentes si estraniava, altezzoso perfino. « Non mi tange », ripeteva fra sé. « Non mi tange. »

« Un giorno — era l’aurora — mio padre la vide. Passò dal sogno alla veglia come una sardina che salta fuori dall’onda. Un guizzo solo. »
Nella camerata era sceso un silenzio inconcepibile. La suora col carrello della cena era bloccata fra il professore e un altro paziente — un anonimo, che non fece mai parte della compagnia, che passò in quel letto e forse ci morì anche, e che tuttavia nessuno ricordò mai più: un volto confuso, una polaroid venuta mossa.
Il ragazzo immaginò che quel silenzio era il grido degli iceberg che vagabondavano per gli oceani. Gli venne un’emicrania.
« Non chiamò subito l’avvistamento », proseguì Último Fuentes, « per il premio. Attese, socchiuse gli occhi per vedere meglio. Era una montagna, una colonna nera e incrostata che tagliava il mare e lo spezzava. Schiuma, schiuma dappertutto. Il gruppo delle altre la seguiva a breve distanza, in ordine, con rispetto. Lei si esibiva, in tutta la sua potenza, ma senza un secondo fine. Nessuna superbia, nessuna vanagloria in quel gigante. Era la sua natura, immensa. Lei era così... »
Timidamente, quasi bisbigliando, il ragazzo disse:
« Ho letto che per Melville Moby Dick è l’immagine di Dio. Che la balena bianca è Dio. »
« Non si decideva a chiamare, a gridare. “Balene a tribordo! Balene in vista!” », riprese Fuentes. « E allora un portoghese mezzo biondo, che chiamavano “l’Americano” perché aveva arpionato per anni sulle coste canadesi, gli diede una spinta e lo mandò a sbattere contro un parapetto: per chiamare lui, per il premio. »
« Un gran figlio di puttana », assentì Colón, saggiamente. « Nel mondo ci sono più figli di puttana che puttane. La matematica non è mica un’opinione. »
« Sì », rispose Último, « hai ragione, hai ragione. Mio padre si ruppe un incisivo, ma non perse il premio. Ricordava tutto, mio padre. Gli rimaneva impresso, indelebile, sotto la fronte. Come quella sensazione del sangue dentro la bocca. Probabilmente era la stessa che provavano le balene quando gli arpioni gli squarciavano le spalle, quando striavano il mare di rosso. »
« Fu per quello », riprese Fuentes, dopo una breve pausa durante la quale fissò la suorina dritto negli occhi, forse con concupiscenza, « che mio padre abbandonò le navi, la caccia alla balena. Fu per quello. »
« Vai avanti », chiese Leguizamo, fra una cucchiaiata di minestra e un boccone di pane inzuppato nel brodo.
« “L’Americano” morì come un cane, da figlio di cagna qual era: punto e basta. Sgozzato da orecchio a orecchio, con le banconote arrossate ancora strette sul petto. Pareva sorridesse — diceva mio padre —, ed io gli ho sempre creduto. »
« Facão? », ‘coltellaccio’, domandò in portoghese Leguizamo, il professore.
« No, no. Arpione. Non poteva essere che arpione », rispose Último. La suora si fece il segno della croce.

Quei letti erano navi. Navi alla deriva del passato, dei suoi racconti. Adesso il ragazzo — che ragazzo non era più, ma uomo fatto, ma che riprovava le stesse impressioni di allora — credeva di capire. Finalmente.
Guardò i nuovi volti dei nuovi ospiti della camerata. Il nuovo equipaggio. Altri vecchi, altri malati. Ma nessun altro Colón, nessun altro « professore », nessun altro figlio di muratore gallego ed anarchico, ex cacciatore di balene.
Il ragazzo, ormai uomo fatto, si accostò al letto del malato più anziano, giallastro. I due si guardarono come innamorati, come complici sopravvissuti — soltanto loro — da un massacro, o una guerra.
« Una volta sono stato qui, in quest’ospedale; in questo stesso letto », fece il ragazzo.
Il vecchio non mostrò timore, né sorpresa. Impassibile chiese:
« Che posso fare per te? »
L’uomo fatto si sistemò, si mise comodo, seduto ai piedi del letto. Pensò all’amico che era venuto a visitare, che poteva aspettare. Poi disse al vecchio:
« Una storia. Raccontami una storia... »

 

 

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