Da
quando il Presidente si è insediato stabilmente molte
cose sono cambiate in questo paese. Tanto per dirne una, il rancio. Il
rancio è migliorato di molto. Pesce tutti i venerdì, come
comanda Santa Romana Chiesa — perché la nostra è una
nazione davvero cattolica —, e brodo di pollo la Domenica,
subito dopo la messa, con mezzo pane nero e un quarto di vino a testa.
Non ho più trovato uno scarafaggio nel piatto da quasi... escluso
quello dell’altro ieri, saranno almeno venti giorni puliti.
Ma il governo del Presidente si sente anche in molte altre cose. Basti
pensare alla privacy, come la chiamano quelli che sono stati
al nord e fanno finta di essere dei veri gringos. Oggi come oggi
ciascun detenuto sta da solo nella sua cella. Era ora. Ho passato cinque
anni nel tanfo delle scorregge di Isidoro Müller, il cileno che —
si diceva, anche se non era dentro per quello — aveva scannato un
soldato col rasoio, prima che morisse di febbre intestinale. Pace all’anima
sua, non rimpiango affatto quei tempi. No, davvero.
Certo, fra una puzza e l’altra, col cileno si parlava. Era uno a
cui piaceva parecchio la chiacchiera, soprattutto di faccende politiche,
sì. Io non ne ho mai capito molto, ma il cileno mi spiegava, raccontava,
non si dava mai per vinto con la mia zucca vuota di contadino. Aveva così
tanta pazienza nello spiegare quella roba difficile, quasi quanto la mia
nel sopportare il suo male d’aria. Insomma, forse Müller era
un uomo fatto solo di aria, tant’è che i suoi bei discorsi
sulle masse e la dittatura io non me li ricordo quasi per niente. Forse
era tutta aria che mi entrava da un orecchio e mi riusciva dall’altro.
Anche se non mi sopportava quando recitavo le orazioni — e allora
diceva un sacco di bestemmie, e io mi imbestialivo, e poi lo perdonavo,
da buon cristiano —, devo ammettere che Müller mi manca. Adesso
sto più largo in cella, respiro la mia aria e la mia
puzza, ma non posso parlare con nessuno. Nell’ora d’aria qualcuno
ci prova. L’altro giorno ho visto un ragazzino, un mezzo mulatto
con una cicatrice vicino all’occhio destro. Non camminava tenendosi
a distanza, sette passi, com’è la regola. Ha rallentato l’andatura,
piano piano, e si è fatto raggiungere dal vecchio che gli stava
dietro. Non ha fatto neanche a tempo a bisbigliare Amen che «
il toro » — il secondino che inaugura tutti i fondoschiena
più freschi — gli ha rifilato una bastonata sui denti e lo
ha fatto strisciare fuori dal piazzale a calci nel culo. A quel punto
hanno fatto rientrare tutti, sotto i getti degli idranti, sicché
neanche i più furbi (quelli capaci di scrivere, che lo fanno sui
pezzetti di carta per pulircisi) sono riusciti a scambiarsi dei messaggi.
E gli idranti li tirano fuori anche se sei in cella, e provi a parlare
con la cella vicina. È difficile, proprio impossibile anzi, che
le guardie non sentano. Qui i muri sono spessi un metro o poco meno. A
volte di più, perché l’umidità li gonfia come
spugne, e infatti ci crescono dei funghi che fanno paura.
Il
cileno, Müller, diceva che prima o poi ci saremmo arrivati. Che le
carceri sono « la palestra del crimine e della rivoluzione »,
diceva proprio così. Presto o tardi avrebbero separato tutti, e
il silenzio ci avrebbe fatto impazzire. Allora io lo prendevo in giro,
gli dicevo che dentro la nostra cella sarebbe circolata un’altra
aria; e lui si offendeva, malediceva la mia ignoranza, che è quella
dei contadini che nascono e muoiono con la zappa in mano, e che se anche
gli dànno un libro non sanno che farsene, e la prima cosa che gli
viene in mente è di accenderci il fuoco o di tapparci una fessura
del camino. Le idee: quelle non sarebbero più circolate. Le
idee. Müller se la prendeva a cuore, parecchio. E io quest’affare
non l’ho mai capito davvero. Non sono forse idee anche quelle che
ci vengono in mente quando siamo soli? Non è un’idea tutta
la storia dei contadini e della zappa, che sarebbero insomma sempre gli
stessi a far in modo che chi è figlio di contadino nasce e muore
con la zappa in mano, o al massimo la vanga e l’aratro, e non vede
il banco della scuola, e non sa le lettere dell’Ave Maria,
non dico del Paternoster?
Io la mia idea ce l’avevo, non c’era mica bisogno del cileno
nella cella a scorreggiarmi sentenze giorno e notte. I signori vanno a
scuola. Le scuole sono dei preti. I contadini — anzi, i poveracci
— non conoscono i libri e sono ignoranti. Perché le zappe
devono restare quelle che sono, dove sono. La zappa non può diventare
libro, altrimenti chi riempie il sacco di quelli che la terra non la sanno
lavorare? Ognuno deve stare al suo posto, questa è la mia idea.
I signori che hanno le terre devono amministrarle; i preti li devono istruire,
nella retta via che ci mostra il buon Dio, così i signori fanno
del bene a tutti, prima di tutto alla terra. Perché i campi e le
bestie diano buoni frutti è necessaria una buona testa, una buona
testa che guida il braccio buono, quello che regge la zappa. Il contadino
questo lo sa. Anche perché va in chiesa e prega il Signore, e allora
gli è tutto più chiaro. Magari sarà anche un
poveraccio, ma tutti gli vogliono bene ed è nelle grazie della
Vergine e dei Santi, e ha tanti figli — non pochi, come i signori
—, e se scampano il vaiolo e le altre brutture che, di tanto in
tanto, vengono portate dai venti che passano per l’inferno, i figli
gli fanno compagnia quando arriva la vecchiaia.
Il
cileno questi discorsi non li poteva sentire. E io — che Iddio mi
fulmini se non è la verità — non glieli ho mai fatti.
D’altra parte, sarebbe bruciata a chiunque. Isidoro Müller
aveva sputato nel piatto in cui mangiava. Se un contadino fa studiare
da prete uno dei figli, il figlio deve fare il prete. E baciare la terra
dove cammina. Essere orgoglioso di imparare le preghiere e i ministeri
della Fede. Il cileno, no, lui non aveva la vocazione. Io dico
che non poteva stare tranquillo, al posto suo. Il risultato si è
visto. Andava in giro per le campagne che ancora puzzava di seminario.
Istigava quelli come me, ma che avevano un briciolo di timor di Dio in
meno. Non era l’unico, beninteso. Ce n’erano altri nel paese.
I nostri militari hanno avuto il loro bel daffare a cacciare nelle macchie,
lontano dalla capitale, e in una retata è toccata pure a me che
non c’entravo per niente con quei balordi bastardi, preso a forza
nel mio letto mentre dormivo. Dovrei consolarmi: sono dentro per sbaglio
e, tutto sommato, mi è andata bene; dicono che diavoli ancor più
tremendi dei nostri si sono visti negli stati vicini, gente che ha mandato
alla forca centinaia e centinaia di campagnoli, quelli che non sono caduti
sotto le mitragliate dell’esercito. Müller era diverso. Anche
se dicono che aveva rasoiato un caporale, lui non era un diavolo, no.
E soprattutto non era come il Presidente.
Il Presidente non era uno studentello superbo. Non disprezzava l’ignoranza
dei contadini. Era militare, sì, ma era figlio di un bracciante
del sud-est, il settimo di una di quelle famiglie che la farina scura
è per mangiare e la farina chiara serve per fare l’ostia.
Il Presidente, lui sì ha fatto la Rivoluzione, quella
giusta, non quella che volevano fare gli altri. E infatti la Vergine l’ha
aiutato e ha guidato la sua sciabola. Ha mozzato le teste che non erano
buone, quelle di quei signori che sciupavano i latifondi, che non permettevano
la pace e la tranquillità necessaria perché il contadino
lavorasse come comanda il Signore. E le teste piene di strani pensieri,
quelle dei senza Patria e dei senza Dio.
Ora
che ci penso forse è per questo che qui non è più
permesso parlare. In fondo il silenzio, la solitudine, sono la pace dell’anima,
dell’anima di chi è giusto, s’intende, ché i
pensieri strani non lo toccano. Il Presidente questo lo sa. È come
un padre buono, un genitore che sa quello che ci vuole per tirar su i
suoi figli, che sa essere anche severo se ce n’è bisogno.
È come un padre il Presidente, il padre di tutti noi. Conosce tutti
i suoi figli, piano piano, e un giorno, molto presto, vorrà conoscere
anche me. Allora mi tirerà fuori di qui, ma non mi chiederà
scusa. Perché, anche se è stato per errore, dovevo restarmene
al mio posto. Questa, dovunque tu sia adesso, è la lezione
che ho imparato, mio caro Müller.
Mi dispiace che tu te ne sia andato, ma forse è stato meglio così.
Forse avresti seguitato a lamentarti, a contestare, a maledire l’ignoranza
dei poveri di spirito che, come dice il cappellano, è l’anticamera
del paradiso. Non so, Isidoro Müller, se avresti apprezzato questa
nazione benedetta da Dio e dal suo Presidente, dove ogni contadino è
felice e tranquillo con la sua zappa nelle mani callose, la zappa che
ripone solamente la domenica, quando va in chiesa e la cambia con un’Ave
Maria.
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