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Si pettinava i lunghi capelli
biondi con pigrizia, fra il ronzio delle mosche e l’aria fermentata
per la frutta caduta in terra, marcita al sole. Il pomeriggio era un istante
di languore morbido, un braccio di bambina di traverso sotto a un cuscino;
oppure una lacrima spontanea, indifferente, che rigava un viso vecchio di
ricordi, e poi si asciugava alla brezza impercettibile delle tre.
Lo specchio rifletteva uno sguardo interrogativo, distante nell’incertezza
degli occhi trasognati. Aveva ragione lo zingaro? Sarebbe venuto dal nord?
L’avrebbe vista e, il giorno stesso, chiesta in sposa alla nonna?
Le domande mute della ragazza volarono nell’aria leggera come farfalle,
o come frammenti di lettere d’amore che qualcuno andava stracciando
vicino alla casa in cui riposano tutti i venti del mondo. Le frasi sfiorarono
delicatamente, ma più e più volte, la ragnatela del volto dell’anziana
addormentata davanti alla soglia. Finché la destarono. Con passo lento,
insicura, s’affrettò in cucina, verso la tazza ancora appoggiata
sulla dispensa. I fondi polverosi del caffè scossero ancora una volta
quella punta di coltello che la donna aveva cominciato a sentire, da qualche
giorno, nel suo stanco addome rigonfio: la tazzina con l’impronta delle
labbra della sua piccola disegnava il forestiero alto e caparbio, la sua impazienza
virile. E la solitudine imminente, la fine della vita nella rassegnazione
della vecchiaia davanti alla crudeltà ignara della giovinezza, nel
profumo di fiori della sposa dai capelli dorati.
C’era stata la sarabanda della fiera, il movimento delle anime in subbuglio
dietro ai carrozzoni, alle bancarelle, alla musica sconnessa delle trombe
del paese. Comunque, prima o poi, qualcuno avrebbe notato la sua Rosetta;
presto o tardi si sarebbero accorti della sua fronte di madonna, dei suoi
occhi da vitellina da latte, delle sue dita da incanti e magarìe.
Fu
Cosic il Guercio a leggerle la mano. Gliela strappò da sotto il vestito
della festa e, prim’ancora che Rosetta aprisse bocca, impose i suoi pronostici.
Ché poi pronostici non erano, ma verità sacrosante, come giurava
Palmira, la più giovane e bella delle mogli dello zingaro, sputando simbolicamente
nell’aria, quasi lo facesse sul serio, sulla testa dei suoi sette figlioletti.
Palmira traduceva la lingua incomprensibile del Guercio, e sorrideva alla timidezza
di Rosetta; erano cose belle quelle scritte nelle linee della sua mano, e le
avrebbe volute saper leggere lei stessa, ma Cosic-« Un occhio »
era uno di quegli zingari che non permetteva alle sue donne di recitare il futuro.
Eccezione — rarità forse — fra quelli della sua gente, stirpe
girovaga di uomini che lasciavano di buon grado a femmine e bambini la fatica
e l’ansia della povertà. Tuttavia il Guercio faceva da solo le
sue leggi, e quello di guardare nel domani era affar suo, del monocolo e del
suo unico occhio, giallo come quello d’un gatto.
* * *
«
È molto tempo che vive qui, professore? », domanda il brigadiere
con un’espressione indecifrabile, come di chi si diverta e, allo stesso
tempo, s’annoi mortalmente del suo lavoro di routine.
« Da troppo, magari. Forse ci sono anche nato », risponde il vecchio
nel cappotto scuro con i gomiti lisi e opachi.
« Vede, Licorsi », riprende il professore, « lei viene dalla
capitale, da Roma, che per noi — per la gente di qua, voglio dire —
è un nord imprecisato, di leggenda, quasi come quello del “forestiero”...
« Lei, brigadiere », continua dopo una breve pausa, prevenendo il
militare che è sul punto di parlare, « immagina che appartenere
ad un posto permetta, di conseguenza, di vedere nel suo buio come i gatti, di
capire, tutto e subito. Anzi, proprio di sapere, che — me lo
conceda — è di gran lunga diverso dal capire, è tutt’altra
cosa. »
La mano quadrata e rugosa del vecchio mescola lentamente lo zucchero, facendo
attenzione, con meticolosità, a che il cucchiaino non tintinni troppo
sulle pareti della tazzina. Il sottufficiale lo imita, e beve un sorso del suo
caffè. Poi, sporgendosi dalla scrivania, dice:
« Ma qui non si tratta di sapere. I fatti li conosciamo, per filo e per
segno, con tanto di confessioni, prove, arma usata per il delitto... »
« Sì sì. Certo, Licorsi. D’altra parte non le capiterà
per molto — forse non le capiterà mai più — un fattaccio
del genere finché se ne starà ad appassire quaggiù.
« Se fu per amore, o per egoismo. È questo che vuole sapere, non
è così? Ma lei è giovane, brigadiere, e si potrebbe accontentare
dei fatti, puri e semplici, invece di rovistare in mezzo al dolore per il suo
“movente”, come lo chiama. E poi lo cerca da uno come me!
Che ne so, io, d’amore e d’egoismo. Ché non sono la stessa
cosa, in fondo? E magari è diversa solo l’intensità, da
uomo a donna; a venti, a trenta, a ottant’anni. »
* * *
Quando
arrivò il forestiero il palazzo era allagato, la pioggia battente e la
grandine della notte prima avevano divaricato le crepe vecchie, aperto nuove
falle nel tetto, infradiciato muri già curvi. Rosetta, a mollo fino alle
caviglie, riempiva secchi e bacinelle con leggerezza. Perché la sua mente
era persa nel volto e nelle mani dell’uomo che sarebbe venuto, e l’avrebbe
portata via. Tutto era ancora da indovinare e, forse proprio per questo, bellissimo.
Allora Rosetta, accanto ai ritratti dei defunti, non vedeva più la tristezza
delle madonne e dei bambinelli, delle Santa Rita e dei San Rocco che ricoprivano,
da sempre, il vaiolo opaco della vernice delle pareti.
La nonna pregava dal suo letto, rivolta all’immagine d’una Vergine
sotto una campana di vetro. Era come un triste Mosè a galla sulle acque,
afflitta dall’avvenire ineluttabile che l’attendeva. Per un attimo
le sembrò perfino che quella Maria del comò, d’azzurro e
di bianco, le avesse voltato le spalle, che si fosse girata di schiena. Non
ne vedeva più il capo, leggermente reclinato verso il basso, là
dove il piede schiacciava il serpe originale. Ma era la penombra della stanza,
e il velo delle lacrime.
Per
la prima volta il fischio del treno riecheggiò fino alla casa di Rosetta.
Si fece strada fra i canneti pencolanti e spezzati, nell’erba alta, attraverso
le viti inselvatichite dall’abbandono. Merito dell’alluvione, probabilmente,
che aveva lavato ogni cosa, e anche l’aria, e adesso il vento asciugava
la terra con soffi freddi e decisi, neanche fosse — questo mondo —
un panno steso, o una bandiera di guerre combattute e scordate, tirata fuori
da un baule, per il capriccio d’un minuto, da un bambino con la voglia
di giocare ai soldati.
Vi fu qualcuno — anzi, c’è ancora — che sostenne che
il forestiero non scese da quel treno, addirittura che non vi fosse mai salito.
E che non si perse nella campagna in cerca della strada, finendo, fra le pozzanghere,
per bussare all’uscio del palazzo in rovina di donna Tresa, la vedova
di don Raffaele. Vi fu chi lo vide armeggiare fra gli zingari e i saltimbanchi,
già due sere prima, già prim’ancora della fiera. I suoi
occhi luccicavano dei riflessi sfrangiati e guizzanti dell’oro, quello
degli anelli alle dita nere ed unghiute del Guercio.
* * *
«
Oddio, le voci volano. E tanto è più piccolo il paese tanto sono
più veloci. Fanno due giri nel tempo di uno, insomma. »
Licorsi lo ascolta in silenzio, gli indici congiunti sulle labbra chiuse. Il
professore cambia posizione sulla sedia — sta scomodo —, e continua:
« Io non credo nel futuro. Negli oroscopi e compagnia bella. Mica perché
sono stato insegnante di matematica, no. È come se fossi rimasto contadino,
come mio padre e mio nonno. Se c’è il secco basta dire “pioverà”,
brigadiere, e farsi sentire bene. Se poi piove, la profezia avrà tutti
gli onori, altrimenti... Nel frattempo i poveri di spirito, le donnette, non
faranno altro che pensare alla predizione. Capisce cosa intendo? »
« Sinceramente non la seguo, professore. »
« Voglio dire che, secondo me — e anche secondo il “forestiero”
—, l’oracolo, la chiaroveggenza, in qualche modo finiscono per condizionare
l’avvenire, gli eventi. Perché siamo noi stessi ad interpretare
o a causare ciò che succede in base a quello che ci è stato profetizzato...
»
« In conclusione, lei crede che l’uomo abbia davvero pagato il Cosic
in modo che raccontasse quella serie di fandonie alla ragazza, sullo sposo che
sarebbe venuto a portarla via, e tutte le altre storie: quello che si dice in
giro, quindi... »
« Le confesso, brigadiere: la tesi della suggestione mi piace »,
dice il vecchio. « Ma quello che so per certo è un’altra
cosa. E glielo dirò lo stesso, Licorsi, alla faccia dell’omertà
di noi meridionali, perché mi è simpatico. Anche se non capisco
perché si ostini così, ad indagine ormai conclusa. »
« Perché, già », sorride affascinato e lontano
l’uomo in divisa. « Lo faccia per la mia curiosità, professore,
la prego. Solo per questo. Io… vorrei sapere anche perché sono
nato, io. »
* * *
Così
il forestiero venne dal nord, con la sua valigia a motivi scozzesi da commesso
viaggiatore, accompagnato dal latrato dei cani distanti. Picchiò le nocche
tre volte sul legno tarlato del portone. Tre tuffi al cuore per Rosetta. E tre
nuovi affondi nel ventre dell’anziana senza più marito, né
figli, senza nessuno al mondo se non la piccola Rosetta.
Ora la casa era quasi del tutto asciutta. Rosetta socchiuse l’uscio mostrandosi
appena, vergognosa per natura e perché si sentiva brutta, brutta come
non mai, non solo per la notte passata a strizzare stracci e vuotare catini
d’acqua sporca.
Non è importante come avvenne l’incontro, in realtà. Quali
furono le parole — le prime — che l’uomo rivolse a Rosetta.
Possiamo immaginare. Un lungo viaggio, solo per lei. Rosetta, la ragazza conosciuta
dai sussurri di chissà chi, chissà dove, nel corso dei suoi infiniti
andirivieni d’affari. Un’idea, e poi un sogno, che viveva dentro
di lui, che era lui. Rosetta restò in silenzio, come al solito.
Per non interrompere quell’incantesimo profetizzato con l’ignoranza
del suo dialetto, così diverso, e sgraziato, dalla bella parlata del
giovane.
E poi l’uomo alto aprì la sua valigia, e c’erano trentatré
rose rosse — dicono, quasi in un gioco di parole —, ché quello
era il numero dei suoi anni, trascorsi nel deserto senza amore: senza Rosetta.
Quel povero Cristo! Le si gettò ai piedi, in lacrime per la gioia. Le
baciava il grembiule come una reliquia di santa, chiedendola in moglie. Era
come un angelo. Era un’annunciazione nuova ed attesa. Anche Rosetta si
inginocchiò, e pianse.
Forse piangeva anche la nonna. O forse no. Ora non avvertiva più la puntura
all’addome, ora che, sotto lo scialle nero, accarezzava la lama del lungo,
affilato coltello col quale un tempo don Raffaele scannava i maiali.
* * *
«
Di certo, so che donna Tresa è una vedova bigotta — una delle tante,
quaggiù —, troppo presa a sgranare rosari e a rispettare i precetti.
Che non lesse mai il futuro nei fondi del caffè, perché non ha
mai saputo, né voluto, farlo. La sua “magia” — chiamiamola
così — può arrivare al massimo fino a cento preghiere ad
un qualche San Vincenzo, ché conservi il suo tetto dissestato dai fulmini
del temporale.
« Il “forestiero” — e questa è una mia convinzione,
badi bene — era solo uno di quegli uomini che amano vivere alle spalle
delle donne. Un tempo c’erano i cacciatori di dote, ma non vale
per i nostri fatti. Forse, quando lo identificherà, scoprirà che
aveva già due o tre mogli, che era sul serio un commesso viaggiatore
o qualcosa del genere, e che non veniva neanche dal nord, ma che era di un paese
della provincia. »
Un tuono fa vibrare il vetro della finestra. Il professore guarda un attimo
fuori, poi prosegue in tono calmo:
« Ha visto? La pioggia ha portato il “forestiero”, e adesso
se lo riporta via... Magari lui Rosetta l’amava davvero. O se ne innamorò
quando le fu davanti, e le vide le occhiaie di bambina, lo sguardo grande e
perduto in quel futuro annunciato — vero o falso che fosse — che
l’avrebbe soffiata via lontano dall’isolamento, dall’ignoranza,
dalla vecchiaia imposta di altri.
« Se vuole sapere come la penso, brigadiere, Rosetta sarebbe diventata
la serva del “forestiero”; ché non è strano da queste
parti — e nemmeno altrove — incontrare ragazzotti per le campagne
in cerca d’una brava domestica, buona per la casa e per il letto, che
faccia loro da schiava per la vita. E più ignoranti e disgraziate sono,
queste ragazze, meglio è, perché è più facile strapparle
alle loro radici.
« Che discorsi, brigadiere? Illazioni da scapolo? Non lo so. Non so se
l’abbia fatto per amore o per egoismo. Per la propria felicità
o per negare l’infelicità a sua nipote. O per semplice demenza
senile, quella che presto o tardi ci tradisce tutti, se non siamo fortunati
a morire prima di dimenticarci del nome, della strada di casa, del nostro stesso
viso...
« Ma poi sa che le dico, Licorsi? Che in fondo donna Tresa ha fatto bene,
e si vede che quella dozzina di coltellate, in un modo o nell’altro, il
“forestiero” le avrebbe beccate comunque, da qualcun altro. Da uno
zingaro magari, o nel buio dello scompartimento di un treno preso all’ultimo
momento, su cui non sarebbe dovuto salire.
« Per me la vecchia l’ha fatto per la sua Rosetta, sì. E
così l’ha liberata: liberata due volte. E poi non mi meraviglierei
— mi creda — se quell’uomo, quel furbo corruttore di oracoli
e indovini, tenesse già tutto scritto, dalla nascita, nel palmo della
sua mano. Tutt’e dodici le coltellate della povera Tresa, analfabeta,
di anni ottantacinque, che non aveva mai fatto male a una mosca. »
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