C’era il pasto, a scadenze regolari, ma durava un attimo e urlava di terrore.
Il resto del tempo del Minotauro, nel suo carcere-chiocciola, erano giorni infiniti, notti interminabili.
Lui si stordiva con i sogni.
Nei sogni del Minotauro i muri cadevano, i fili si spezzavano — nessuna regina si cambiava in vacca.

Una volta il Minotauro sognò un mondo senza mostri: guardava in basso e le braccia e le gambe non avevano più dita.
Zampe potenti e zoccoli.
Zoccoli per martellare il mondo.
Fece il suo ingresso fieramente, con spavalderia. Tutt’attorno mille teste e mille voci gridavano insulti, acclamazioni — applaudivano, benedicevano gli dèi e li bestemmiavano.
Non le ascoltava.
Assaporò il sole caldo sulla pelle, i riflessi dei raggi nello specchio sminuzzato della polvere. Galoppò con frenesia fino al centro esatto dell’anfiteatro. Si bloccò lì, respirò le costellazioni che si congiungevano sopra le sue corna, rese grazie al Cielo. Niente più rancori — niente più memoria. Il cuore gli scoppiava dalla gioia. Era bellissimo.
Poi d’improvviso, con la coda dell’occhio, vide un movimento.
E un bagliore di metallo.
E sentì un fuoco che gli incideva il dorso.
E annusò l’odore acre, disgustoso, del suo stesso sangue.
Di colpo, come in un secondo labirinto, si scoprì esausto, col corpo gonfio e avvelenato di ingiustizia.
Poi sfolgorò un Teseo vermiglio — che lui sapeva uguale a tutti gli altri, letale e ingannatore come tutti gli altri.
E allora — precisamente allora — il sogno del Minotauro terminò.

 

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