L’attesa. L’assenza

(Capitolo 16)



Lettera di Dona Beatriz de Bragança a Harald III

 

Lille Havn, 17 di marzo 1770

Mio Amato Signore,
è dopo lungo tentennamento che mi risolvo a scriverVi di questo viaggio, possibile solo grazie alla Vostra generosità e grandezza d’animo. Più volte mi è accaduto di soffermarmi a riflettere sulla Vostra scelta: se è vero, infatti — come dite (e come potrei dubitarne?) —, che avete per me gli stessi sentimenti che io ho per Voi, allora ben immagino quanto sia stato arduo esaudire le bizzarre volontà di questa testa matta, concederle — concedere a colei che onorate del Vostro interesse — di esporsi a chissà quali pericoli soltanto per appagare la sua brama di conoscenza. Benché infatti, come asserisce lo stesso Dottor Pedersen, le notizie acquisite e verificate dal Collegio Sanitario Reale assicurino che il rischio di contagio sia ormai debellato, mi sembra quasi di avvertire l’inquietudine e l’ansia che la Vostra Persona Serenissima deve aver provato per i possibili pericoli ai quali la sottoscritta ha voluto esporsi; e d’averVi procurato questi turbamenti mi dolgo nel più profondo della mia anima.
Di questo viaggio Vi scrivo, dunque. Un viaggio che ha dell’incredibile, Mio Caro, non foss’altro che — ne ho la certezza — tutti noi che l’abbiamo affrontato ne torneremo in qualche modo diversi, cambiati.
Ma è necessario che mi spieghi meglio.

Tralascerò — ché non voglio annoiarVi — del nostro arrivo a Lille Havn, di come i moschettieri della Compagnia « Skanderborg » ci abbiano scortato, senza batter ciglio, al di là della cintura di sicurezza stabilita dall’Ordinanza di Quarantena. Ho saputo, peraltro, che questi soldati vengono chiamati « gli Immortali », o qualcosa di simile. Non ho avuto modo di approfondire la cosa (le maniere del loro ufficiale, seppur gentili e impeccabili, erano rapide e secche), ma non ho mancato di notare il contrasto bizzarro fra quel soprannome e le figure dei militari. Sbilenche, smagrite, esaurite — niente di meno immortale o di più vicino alla Morte. Per un istante mi sono scoperta a pensare a quegli uomini come a dei cerberi ossuti ed involontari, comandati, loro malgrado, ad interminabili veglie ai confini di chissà quale inferno.
Lille Havn — mi sono detta allora — è stato inferno due volte. La prima volta per l’epidemia che l’ha infestato, per i suoi ammalati ed i suoi defunti. La seconda per il terrore — invisibile, occulto — che ha proiettato all’esterno. Un terrore sempre sul punto di traboccare fin oltre l’oscura, approssimativa cornice della bolgia bianca di neve da guardare a vista. Un terrore che, forse, i cuori palpitanti sotto le divise immaginavano simile a un vento improvviso, ad un soffio divino o diabolico pronto ad alzarsi da un momento all’altro, e a spazzarli via tutti in un colpo solo, « Immortali » veri o impostori.

Ho parlato di vento, Signor Mio. È stato il vento — uno spirare gelido, salmastro, che impastava il mare addosso alla terra — il primo ad accoglierci. Già scorgevamo i profili bruniti, un po’ obliqui, delle basse case di Lille Havn inclinate l’una sull’altra, e il vento picchiettava sui finestrini della carrozza, li incrostava di sale. Aveva il ritmo ipnotico della risacca, dell’andirivieni incessante delle onde. Cavalli e cavalieri piegavano il capo, opponevano criniere e cappelli alle raffiche, ora continue e ostinate come la spinta d’un gigantesco braccio invisibile e umido, ora repentine e taglienti come staffilate inferte a casaccio.
C’era la certezza, in quegli attimi — l’ho letta in me e negli sguardi di chi mi era accanto —, di essere appena entrati in una regione giunta ai suoi ultimi giorni, sul punto di scomparire. Avvertivamo nitidamente, nel vento, l’ansia del mare, la sua volontà di straripare e corrodere. Di irrompere sopra il villaggio ed annetterselo, trascinarlo via. Una sorta di fame atavica — ho immaginato — questa marina, che repliche e repliche di quel teatro di morte dovevano aver risvegliato.
Francisco Maria ha mormorato qualcosa in lingua urone a João Francisco, che teneva gli occhi chiusi ed il bavero sollevato (ma non stava dormendo: fingeva, immobile e vigile nella postura tipica del cacciatore indiano, pronto a scattare). Mi è parso di capire questo:
« L’aria che soffia è acqua di mare. L’acqua di mare adesso mangia i ripari e la terra degli uomini. »
Naturalmente traduco male: semplifico, alla maniera europea. L’idioma degli Uroni, per quel che lo conosco, non fa mai uso di termini astratti; è sempre complesso, ha l’esigenza di descrivere e precisare fin nei minimi particolari. Ho dovuto scrivere « L’aria che soffia è acqua di mare », ma forse Francisco Maria aveva detto qualcosa come « L’aria salmastra e satura di umidità che spira su di noi è acqua di mare della baia ».
Una volta il Visconte, a proposito della lingua di questo popolo della Nouvelle-France, fece un’osservazione — la ricordo perfettamente —; disse: « Nella sostanza, si può affermare che quella sia gente davvero puntigliosa »; ma, nel caso particolare, mio marito si riferiva all’abilità perfino raffinata che gli indiani mostravano nel mercanteggiare, alla loro dialettica nelle trattative in cui tenevano bellamente testa a qualsivoglia commerciante europeo, francese o meno che fosse.
So di certo, ad esempio, che un concetto come « tempesta » abbisognerebbe di un lungo paragrafo a tradurlo in urone. E questo perché gli alleati indiani dei Francesi non concepiscono la « tempesta » senza accompagnarla al « fulmine », al « lampo » ed al « tuono », come pure alla sua manifestazione di potenza, al suo fragore assordante. E quindi non sarebbero mai in grado di limitarsi ad un unico vocabolo, ad un’espressione di pura idealità, aliena da ogni altro contesto.
La cosa curiosa, tuttavia, è che i miei due valletti — João Francisco e Francisco Maria, cioè un vero urone ed un mezzosangue — siano capaci di usare semplicemente « tempesta », senza altro aggiungervi, quando mi si rivolgono in francese o in portoghese, lingue che ora dominano con discreta padronanza. E che invece ciò non accada quando ritornano al loro idioma natale. È come se, a seconda del linguaggio usato di volta in volta, essi si trovino a dover pensare in forme e maniere diverse. Quasi che ogni lingua imponga, a chi parla, dei differenti e suoi propri schemi mentali; che filtri la realtà e, in qualche modo, la ricostruisca e rimodelli a immagine delle regole con cui ogni sua frase viene pronunciata.
Probabilmente, Mio Signore, adesso Vi parrà che io divaghi. Eppure Vi sarà presto chiara l’utilità di questa mia digressione, ché se è vero che gli idiomi del mondo intervengono attivamente nella percezione del circostante — quando non giungano addirittura a mutarla (e non rammento più se una siffatta teoria mi sia occorso di leggerla in un qualche trattato, o se l’abbia udita dai colti illuminati dei saloni parigini) —, allora codesto discorso sulla lingua urone non sarà stato affatto peregrino. Immaginate infatti sin d’ora i miei due Franciscos dinnanzi alla manifestazione d’un portento. RaffigurateVeli mentre osservano, coi loro occhi sgranati, la visione del Leviatano che s’imprimerà per sempre nelle loro menti e nelle loro anime. E poi provate, Mio Amato, a indovinare le loro parole, le loro descrizioni dell’Indescrivibile, il loro ricorrere, affannosamente, a questo e a quell’altro idioma, quasi ad illudersi di poter afferrare, traducendolo in misere frasi, ciò che sfugge all’umana comprensione.

Ma torno al nostro arrivo, allo scenario del villaggio che l’artiglio della peste misteriosa ha tramortito e scarnificato.
A questo punto dovrei raccontarVi delle mie aspettative — e di quelle di noi tutti. Ci attendevamo gli echi dei lamenti, un brancolare di ombre — le ombre di una gente ferita, prostrata. E invece c’erano soltanto i vortici di polvere fredda che turbinavano dentro i vicoli deserti e bui; solo i profili rettangolari e oscuri di porte che si aprivano e si richiudevano, sbattendo una cantilena fastidiosa e stanca che la stessa aria della baia sembrava avere in odio. Di tanto in tanto il grido di un gabbiano che si tuffava fra le onde dietro il guizzo d’un pesce, o magari si gettava su di un cumulo di immondizie affiorato dal ghiaccio disciolto, dietro le costole macilente d’un ratto. Non c’erano che suoni, e rumori. E nemmeno uno di questi che fosse umano.
« Lo spirito della Morte è potente qui », ha detto lapidario, in francese, João Francisco.
Subito il Dottor Pedersen, rosso in viso, ha voluto precisare (o meglio, correggere):
« Dev’essere l’ora mattutina. È presto… e non c’è nessuno in giro. »
Quasi balbettava, agitando il capo a destra e sinistra, nel suo solito fare tentennante e insicuro. Era facile capire che stava parlando a se stesso, per darsi animo. E ha aggiunto uno sbadiglio, a sottolineare l’incipiente stanchezza per la nostra levataccia.
« Già », ho fatto io. « Dev’essere l’ora », ho tagliato corto. Avevo letto negli occhi dell’urone quella luce di crudele ironia che conosco assai bene. Non intendevo permettere che João Francisco si accanisse sul giovane inviato del Collegio Sanitario, che lo torturasse approfittandosi dei suoi timori.
A volte, a questi indiani, è sufficiente anche un semplice sguardo, o un sorriso accennato, fatto scoprendo la chiostra dei denti. In quegli attimi si ha come l’impressione di non fronteggiare un nostro simile, un essere umano; piuttosto, inaspettatamente, ci si materializza davanti una belva feroce. Sono sicura, Mio Caro, che intendete bene ciò che voglio dire, poiché siete stato spesso a contatto coi miei due attendenti, soprattutto nel corso delle battute di caccia. La loro ferinità — che affiora all’improvviso, sovente quando siamo intenti ad altre cure, e quindi più vulnerabili — finisce per atterrirci: allora non abbiamo difese da opporle e ci rammentiamo delle voci, nebulose e imprecise, che riportano dei loro riti sanguinari ed atroci, del cannibalismo che praticano sui corpi dei nemici caduti nelle loro mani.
Ma — ne sono convinta — le cose stanno diversamente: il fatto è che questi uomini sono così tanto vicini alla Natura, appartengono così tanto ad essa, quanto noi Europei ne siamo irrecuperabilmente, definitivamente distanti. Dinnanzi a questa distanza remota — che forse, senza confessarcelo, viviamo come un distacco e una separazione — non sappiamo far molto di più che nasconderci dietro lo schermo delle nostre paure.

Ora troverete che, come di frequente, io mi abbandoni a gratuite filosofie. È forse colpa, Mio Amato Sovrano, dell’indole del mio pensiero medesimo: tortuoso (come si dice sia quello delle donne), che gira e rigira più volte su sé, e in ogni suo andare e tornare ama soffermarsi su aspetti e visioni che in precedenza gli sono sfuggiti.
Oppure il motivo è proprio questo viaggio, proprio Lille Havn. Ho sempre creduto che vi siano luoghi, e atmosfere, che aiutano i nostri pensieri a proliferare. Questi luoghi, queste situazioni, devono agire alla stessa maniera di certune scenografie, di determinati palcoscenici, i quali — per il semplice fatto d’esser dipinti così, e non altrimenti — incalzano e stimolano la fantasia e la vena dei commediografi e dei tragediografi.
E così, entrando a Lille Havn, è stato come se i miei — i nostri — pensieri abbiano preso a correre. Prima sulle ali del vento; poi, subito dopo, non appena il fischiare freddo e salmastro è svanito di colpo nel silenzio di quel paese assente, sotto la pioggia scrosciante. Correvano, i nostri pensieri, sotto il temporale improvviso, allo stesso modo in cui servi e domestici si precipitavano con ceste e bauli in direzione della locanda nei pressi del porto. C’era da passare per viuzze anguste, troppo strette per qualsiasi carrozza, e dunque non siamo scesi, siamo rimasti nello slargo della piazza, in attesa che il cielo si calmasse.
Pedersen si torturava l’acne sulle guance rosse, visibilmente infastidito dal parlottio, per lui incomprensibile, dei miei Franciscos. Stava piovendo a dirotto, perfino con violenza, tanto che la nostra vettura pareva investita da una gragnuola di colpi, da serie e serie di martellate che s’abbattevano sulla tettoia. Dalla piccola feritoia che dava sulla cassetta si vedevano le larghe sagome nere dei due cocchieri, stretti spalla contro spalla ad offrire meno corpo possibile alla pioggia incessante. Da ogni parte veniva l’odore del manto bagnato dei cavalli e, di quando in quando, gli animali trasalivano al baluginare lontano dei lampi.
Eravamo là dentro, immobilizzati nostro malgrado, e allora mi è venuta alla mente un’altra fissità immobile: il Vascello. Pensavo a quando l’avrei finalmente potuto vedere — sempre che vi riuscissi, che fossi ancora in tempo, giacché i ghiacci avevano ormai liberato le onde, e il tratto di mare avanti alla baia molto presto sarebbe tornato navigabile.
Pensavo a questo, dunque, e notavo come il nostro ingresso a Lille Havn fosse stato contraddistinto dalla mancanza, dall’indefinitezza. Avevamo varcato la soglia d’un mondo vuoto, cieco e sordo, avaro di colori e di immagini, e addirittura di suoni e rumori. Erano questi gli strascichi, gli ultimi maligni effetti del morbo? La sua cicatrice indelebile? Poiché eravamo ad un passo dalle banchine e dai moli, ma potevamo solo immaginare lo sciabordio dell’acqua in mezzo agli scafi ancorati, o l’orizzonte interrotto dalle linee inclinate d’un bastimento-fantasma.
Fantasmi, sì, apparenze: indizi di forme che si tracciavano da sé sole, dentro le nostre menti. Non c’era altro a Lille Havn. Nulla oltre a sagome di cocchieri sotto la pioggia, a tetri contorni di porte cigolanti e di case mute. Nulla oltre l’idea dello sghembo profilo d’una nave alla fonda in alto mare che forse, di lì a poco, sarebbe scomparsa per sempre.
Senza una parola, senza annunciare le loro intenzioni, João Francisco e Francisco Maria sono improvvisamente saltati fuori dalla vettura, svanendo dentro la pioggia. Ennesime forme imprecise anche loro, repentine, nient’affatto impacciate dalle pellicce dei grossi pastrani. Li ho osservati finché ho potuto dal finestrino, mentre sparivano in direzione del mare. Hanno imboccato un budello che s’incuneava fra due file di catapecchie senza colore i cui tetti, su in alto, agli ultimi piani, parevano quasi incurvarsi e congiungersi fino a nascondere il cielo di piombo.
Sono scivolati via in mezzo al brusco grigiore di quel mattino. Predatori rapidissimi, spalle arcuate e ginocchia flesse, pronti a balzare, a scagliarsi. Erano gemelli identici, ciascuno l’ombra dell’altro. Creature affiorate da un sogno — un sogno che metteva in scena chissà quali cacce ed inseguimenti in una terra sconosciuta, scarna. Ché non esistono belve in agguato, con pelliccia e tricorno, se non nei sogni. E solamente nei sogni belve del genere si aggirano in vicoli oscuri, minimi ed essenziali, di pareti nere e acqua sporca.
Rammento l’attimo in cui ho incrociato lo sguardo spaurito di Pedersen. Ed il mio strano sollievo che si rispecchiava negli occhi del medico. Io, in quell’istante così intimidita e lontana da quei due esseri che erano quasi cresciuti con me, che giorno per giorno vivevano accanto a me. E il conforto che ora provavo — il sollievo che confermava la mia debolezza senza speranza — grazie a quel muro di pioggia che li separava da me, che li faceva invisibili. I miei Franciscos, che non erano affatto miei, i quali — solo allora me ne avvedevo — neanche mi avevano mai rivelato i loro nomi tribali (quali erano? « Volpe Silenziosa »?, « Sguardo di Lupo »?, « Freccia Affilata »?).
Uno di quei momenti della vita, credo, in cui ci rendiamo conto che non conosciamo e non conosceremo mai veramente chi ci è vicino, neanche quelli con cui dividiamo il nostro respiro, o il sapore delle nostre labbra. L’amara, invincibile consapevolezza che tutto ci sfugge, e che del Caos astruso da cui siamo avvolti non possiamo afferrare che sprazzi incoerenti di luce e di ombra; o, più spesso, soltanto frammenti — il ricordo d’una carezza, della quiete cristallizzata d’un lago, dell’odore vertiginoso dell’aria che vibra per una spirale di falchi…

Ma perché ora Vi dico questo? Perché indugio in suggestioni e stupori e non, invece, nella narrazione pura e semplice degli accadimenti? Forse perché, Carissimo, proprio adesso che scrivo queste parole in disordine — proprio adesso che tento di raccontarVi ciò che è accaduto e, al contempo, me stessa — è l’angoscia di chi ama che mi prende. È un’insicurezza sottile, cattiva. Ci riporta indietro nel tempo, ci fa minuscoli, piccoli: neonati che vedono a stento, con occhi deboli, inadatti, un mondo che è ancora soltanto Bianco e soltanto Nero; che agitano manine goffe e disperate quando quel tepore consueto sparisce anche solo un attimo, ed è come se la madre — cioè tutto — fosse perduta per sempre.
È che — io lo so bene — in cuor suo ogni amante combatte una battaglia snervante e infinita. Desidera sopra ogni cosa affrancarsi dal bisogno perpetuo dell’altro; l’altro che — si ripete — egli non può e non potrà mai comprendere appieno. E, al tempo stesso, esiste e vive nel Dubbio, s’appaga del bagliore illeggibile dentro il sorriso di colui o colei che regna sui suoi pensieri: non è più in grado di fare a meno di quest’insondabilità.
Quindi ora scrivo dei miei compagni di viaggio, dei miei valletti che sgusciano in mezzo alla pioggia come leopardi affamati; eppure non è loro che non capisco, che sento a un tratto lontani, ma Voi. Voi, Mio Amato, ché come per ogni altra donna che sia innamorata le ore ed i giorni che ci separano si fanno abisso incolmabile, e tutto è via via più malsicuro e crudele, e le idee che si affacciano sono tetre, sconfitte. Se mai, ad esempio, leggerete queste mie parole — se ne avrete davvero voglia o Vi tedieranno. E se, insieme ad esse, anche il mio ricordo Vi verrà a noia.

Qui mi fermo.
Forse è vero quel che si dice: che una Viscontessa — o meglio: una donna — non dovrebbe mai ammettere le proprie debolezze. Ma questo, ovviamente, è un luogo comune.
Allora riprenderò a scrivere quando sarò nuovamente… libera. Libera dai luoghi comuni e — perdonatemi — dall’idea di Voi.

 

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